I dazi di Trump e gli impatti sull’innovazione
Una tempesta annunciata, ma comunque pur sempre una tempesta. Così si è abbattuta il 2 aprile sui mercati mondiali la mannaia di Trump mandando a fondo le borse e generando reazioni unanimi di sdegno. Tutti ora si interrogano già su cosa accadrà dopo l’ondata emotiva, guardando con apprensione alla riapertura dei mercati dopo il weekend ma, soprattutto, all’impatto reale che la pioggia di dazi reciproci avrà sull’andamento del mercato reale e, in particolare, sull’innovazione tecnologica.
A livello europeo tornano a mente le parole di Mario Draghi, che ben prima che “the Donald” trasformasse le minacce in realtà, aveva lanciato il suo urlo di dolore invitando l’Europa a fare qualche cosa e a uscire dall’immobilismo, indicando nel suo rapporto sulla competitività anche alcune strade che sarebbe necessario percorrere, affermando un’originalità del vecchio continente e un primato in alcuni campi, come la transizione green.
Dopo il 2 aprile tutti hanno iniziato ad interrogarsi sul reale impatto che la nuova ondata di protezionismo potrà avere sull’innovazione, ovvero, anche sul mercato delle start up e delle PMI innovative, fortemente legata alla dinamica dei costi e al meccanismo di finanziamento legato ai venture capital, mentr qualcuno ha anche iniziato a far trapelare l’idea che su certe cose (green deal) sarebbe opportuno fare marcia indietro.
Ma proviamo a dare spazio al cosiddetto “pensiero laterale”, che poi tanto laterale non è.
Partiamo da un dato: la scommessa, per alcuni l’azzardo, di Trump è quella di ripetere l’esperienza che nel XIX portò di fatto allo sviluppo dell’industria manifatturiera statunitense, basata anche in quel caso su una solida politica protezionistica. Pochi, tuttavia, sarebbero disposti oggi come oggi ad avvallare un parallelismo tra quel mondo e quello attuale, dove decenni di globalizzazione hanno creato catene del valore di livello mondiale impossibili da cancellare con un atto amministrativo. Ma se non porterà i risultati attesi, a cosa porterò il protezionismo made in USA? I più critici indicano una possibilità, non remota, che ha come precedente la politica protezionistica dell’Impero britannico nel corso della primissima rivoluzione industriale che, inizialmente portò benefici ai sudditi della Corona, ma nel medio periodo portò allo sviluppo di una concorrenza agguerrita che mise rapidamente in crisi le industrie britanniche.
In altri termini, ciò che può accadere secondo alcuni osservatori, è che in un mondo molto più “piccolo” di quello di due secoli fa, con una condivisione della conoscenza ad un livello mai così elevato, i competitor possano mettere rapidamente in crisi i punti di forza dell’economia statunitense, ovvero il mercato dei servizi digitali, senza peraltro riportare negli USA quella manifattura tradizionale che non può competere con i Paesi emergenti (con o senza dazi).
E sarebbe certo un esito alquanto paradossale.
Ad avvallare questa tesi c’è il pensiero di numerosi economisti che concordano sul fatto che le barriere commerciali inneschino meccanismi che possono facilmente sfuggire di mano; tra di essi si possono citare Paul Krugman, Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz e Arvind Subramanian, che hanno sottolineato come i dazi portino facilmente a inefficienze che frenano l’innovazione e nel lungo termine mettono fuori mercato le economie che li applicano.
Nulla di nuovo sotto il sole, quindi, dal momento che già Adam Smith e David Ricardo, i padri fondatori della teoria economica del libero scambio, avevano sottolineato che i dazi ostacolano il flusso di beni e idee, compromettendo il vantaggio competitivo che deriva dalla concorrenza internazionale.
I dazi di Trump sono, quindi, certamente una sciagura e inizialmente avranno l’effetto di frenare l’innovazione nei Paesi che più dipendono dalle tecnologie statunitensi, ma non è detto che nel medio lungo termine questo non si traduca in un vantaggio, portando le imprese europee ad un maggiore livello di innovazione e competitività, basandosi su un mercato interno gigantesco che vale quasi 20 mila miliardi di euro l’anno. Questo a condizione che, come direbbe Draghi, l’Europa faccia qualche cosa…