Amministratori di immobili e transizione energetica: un rapporto tutto da costruire
Nell’excursus fatto in questa rubrica Impianti a Livelli sul rapporto tra gli italiani, l’innovazione tecnologica e la transizione energetica in atto, ci siamo occupati di end user (i cittadini), tecnici installatori e progettisti. Era gioco forza terminare questa carrellata con gli amministratori di immobili, o, come più comunemente li chiamiamo, con gli amministratori di condominio.
Si tratta di un anello fondamentale nella catena che porta (o dovrebbe portare) all’innovazione del patrimonio edilizio esistente, dal momento che i numeri parlano molto chiaro: in Italia oltre 45 milioni di persone vivono in condominio. I condomini nel loro complesso sono circa 1,2 milioni, in cui risiedono 14 milioni di famiglie. Ciò significa che circa tre persone su quattro vivono in un edificio con spazi e servizi comuni gestiti da un amministratore e tra questi servizi rientrano gran parte degli impianti.
Si tratta, per certi versi, della fotografia più fedele della straordinaria frammentarietà della proprietà immobiliare italiana, che si risolve, lo sappiamo, nell’incubo ricorrente delle assemblee di condominio, dove trovare la quadra tra situazioni estremamente diversificate appare un rebus irrisolvibile, e lo diventa ancor di più se al “timone” non c’è un amministratore preparato e convincente.
Ecco perché la figura dell’amministratore rappresenta una chiave di volta (oppure un grosso problema) nel momento in cui si chiede uno sforzo importante nella direzione dell’innovazione e della transizione energetica del patrimonio edilizio. La figura dell’amministratore di immobili, infatti, è regolamentata in Italia principalmente dal Codice Civile, con la legge 220/2012 che ha introdotto importanti modifiche rispetto alla totale anarchia precedente, prevedendo anche il principio dell’abilitazione a seguito di un corso di 72 ore (sic) e una formazione continua di 15 ore all’anno erogata da associazioni riconosciute o enti di formazione abilitati; ma non prevede albi professionali e, soprattutto, lascia libertà a tutti i condomini con meno di otto unità di farsi amministrare da un condòmino, spesso privo di qualsiasi preparazione tecnico giuridica.
Una realtà che bisogna conoscere per inquadrare i dati raccolti dal sondaggio ANIE-CRESME alla fine del 2024. Le stime più recenti dicono che su circa 325.000 amministratori di condominio in Italia, solo 25.000 operano come professionisti, ovvero un misero 7,7%.
Un dato che spiega, per esempio, perché a fronte della possibilità di bonificare le colonne montanti elettriche a spese degli operatori per preparare i condomini al processo di elettrificazione, come prevedeva una sperimentazione promossa da Arera nel 2019, solo il 3,7% ci abbia “pensato” e soltanto l’1,4% abbia colto l’occasione. Per la stessa ragione solo lo 0.6% degli edifici con amministratore ha costituito una comunità energetica o un gruppo di autoconsumo collettivo.
Non tutte le responsabilità sono evidentemente in capo ai soli amministratori, la frammentarietà della proprietà e la sua eterogeneità, di cui si diceva pocanzi, ne è sicuramente concausa, pur tuttavia un livello professionale più elevato nel campo dell’amministrazione di immobili è certo che aiuterebbe molto il processo di transizione in atto.
I numeri raccolti da CRESME per ANIE sono in tal senso impietosi: negli edifici amministrati dai professionisti intervistati, solo il 19,5% è dotato di impianto FTTH, il 5% di impianto fotovoltaico, l’1,6 di colonnine di ricarica per i veicoli elettrici, l’1,1% ha sistemi di storage energetico o di building automation. Se si va ad osservare, infine, gli impianti valutati in crescita nei prossimi anni dagli amministratori, il risultato sembra essere fortemente influenzato dalla normativa (il rispetto di norme cogenti) più che dalla capacità di motivare i proprietari in modo adeguato; come dire: motu proprio il condominio fa ben poco per aggiornare i propri impianti. Lo zero in tal senso raccolto dai sistemi BACS, purtroppo, parla da solo!