Le città alla prova della rivoluzione digitale

19 Settembre 2023 Luca Baldin


Come editoriale, questa settimana, vi invito alla lettura di questo mio contributo sulla rivista on line “Il libero professionista” in cui cerco di definire il rapporto tra nuove tecnologie e città. Tutto con un occhio rivolto alla prossima “Milano Smart City Conference”, che si terrà nelle due sedi di ANCE Milano e della Fiera di Rho il 14 e 15 novembre come evento condiviso delle quattro fiere partner del porgetto MIBA (Milano Internationale building alliance)

Il suffisso “smart” è diventato nel breve volgere di pochi anni uno dei più abusati in tutte le lingue del mondo. La ragione risiede probabilmente nella sua versatilità e, in fondo, nella sua “simpatia” intrinseca; smart può significare, infatti, molte cose, tutte generalmente positive: intelligente, furbo, agile, elegante, brillante… e potremmo continuare.

Nel coniugare questo termine versatile ad un organismo complesso, come un’area urbana, ogni utilizzatore settoriale tende a forzarne il significato a proprio vantaggio: chi si occupa di mobilità lo finalizza a migliorare veicoli e circolazione; chi si occupa di energy lo intende come orientamento alla transizione green e uso di energie rinnovabili; chi si occupa di ICT lo vede anzitutto in chiave di reti e di digitalizzazione dei servizi.

In realtà, come rilevava già nel 2014 Giuliano Dall’O del Politecnico di Milano, “sebbene l’innovazione tecnologica, proprio a partire dall’ICT, abbia un ruolo importante nello sviluppo delle città, e contribuisca in modo significativo ad accelerare i processi di evoluzione in chiave smart, una visione tecnocentrica delle smart city ne limiterebbe le reali potenzialità” (G. Dall’O, Smart city, Il Mulino 2014).

Per pensare correttamente al concetto di smart city, infatti, occorre avere sempre come punto di riferimento il cittadino e il miglioramento della qualità della sua vita, possibilmente, oggi più che mai, con un approccio responsabile dal punto di vista della sostenibilità in chiave globale, vera variabile non negoziabile, nota da tempo, ma diventata priorità assoluta in questi ultimi due o tre anni.

Per questa ragione bisogna parlare non solo di tecnologia, ma anche di metodologia, inserendo nel quadro complessivo dei ragionamenti sulla smart city concetti come quello di forestazione urbana, di resilienza, di città dei 20 minuti, di accessibilità, di socialità e via dicendo.

Alla base di tutti questi approcci, solo apparentemente distinti, in realtà strettamente integrati, ci sono elementi comuni e noti da tempo immemore, come la conoscenza e la condivisione del sapere.  Elementi che, potremmo dire, stanno alla radice stessa della nascita e dello sviluppo di qualsiasi area urbana, perché hanno strettamente a che fare con l’uomo e con la sua natura di animale sociale: una caratteristica che lo rende unico nel momento in cui, spesso proprio attraverso l’invenzione di tecnologie, sviluppa la capacità di accumulare informazioni di generazione in generazione. Informazioni che nascono sempre dalle relazioni e che nelle città si sviluppano più velocemente che altrove, come dimostrano numerosi studi al riguardo, rendendole il luogo per eccellenza del progresso.

Ma se alla base del successo delle città nella storia – non solo, quindi, di quelle moderne e “smart” – c’è lo scambio di informazioni che si traduce in opportunità per chi le abita e ci lavora, ecco che la rivoluzione digitale (che non a caso ha come acronimo “information technology”) che si è affacciata prepotentemente alla ribalta a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso col lancio del primo personal computer (1977), ha oggi un ruolo determinante.

Energia, mobilità, nuovi servizi digitali, che fanno di una città una “smart city”, hanno come minimo comun denominatore la produzione di dati, sempre più numerosi ed elaborati sempre più velocemente. È il fenomeno dei “big data”, ovvero di quell’enorme mole di informazioni automatizzate che milioni di apparecchiature e sensori connessi producono e che, se elaborati correttamente, consentono la cosiddetta “gestione predittiva”, ovvero la capacità di produrre azioni tempestive non sulla base di sensazioni o presunzioni, ma sulla base di dati certi.

Un elemento fondamentale, specie nel momento in cui grazie al “machine learning” siamo in grado di istruire apparecchiature a mettere in atto azioni sempre più complesse in modo automatico, ovvero senza l’esigenza dell’intervento dell’uomo, con una precisione e una rapidità che sono incompatibili con la natura umana. È la rivoluzione della cosiddetta “intelligenza artificiale”, ovvero la nuova sfida tecnologica che ci troviamo oggi a dover affrontare e che impatterà in modo determinante nella gestione delle città.

Va da sé che tutto ciò di cui abbiamo soltanto accennato non è nemmeno ipotizzabile senza una adeguata infrastruttura digitale delle aree urbane. Non a caso si parla molto oggi, anche in Italia, di rete BUL (banda ultra larga), ma anche di infrastruttura digitale d’edificio, entrambi oramai rigorosamente in fibra ottica, che messi a sistema costituiscono la rete neuronale dell’organismo urbano. Senza rete e senza infrastrutture digitali d’edificio parlare di smart cities è infatti semplicemente un ossimoro.

La rete è infatti l’infrastruttura abilitante della smart city, sulla quale poi si vanno a costruire tutti i nuovi servizi, ma anche quella capacità di “funzionare” in modo intelligente e predittivo che ne costituisce la principale caratteristica.

Ma di quali nuovi servizi parliamo?

In primis chiaramente ogni forma di telecomunicazione attraverso i più comuni devices con la possibilità d veicolare contenuti il cui limite è dato soltanto dalla nostra fantasia, ma questa è la parte per certi versi più banale. In realtà oggi parliamo di gestione della mobilità, di accessibilità ai sevizi pubblici e privati, di sicurezza, di assistenza sociosanitaria a distanza e, certamente non da ultimo, di gestione energetica, anzi, di “digital energy” come si sente sempre più spesso dire. Ovvero di quello scenario che ha entusiasmato anche Papa Francesco e che passa sotto il nome di “Comunità energetiche”, rispolverando un concetto, quello di “comunità”, originariamente intrinseco a quello di città, ma in realtà del tutto smarrito negli ultimi decenni.

Dobbiamo temere tutto ciò?

Dobbiamo avere paura dell’intelligenza artificiale e di macchine che agiscono senza il nostro diretto controllo? Io credo proprio di no, facendo mio il concetto che la tecnologia non è mai fine a sé stessa, ma svolge la funzione che l’uomo le attribuisce. Capisco tuttavia che oggi può generare timori, dal momento che ogni innovazione importante ha sempre dato vita a due tipi di atteggiamenti da parte dell’uomo: entusiasmo o timore; con quest’ultimo che si può anche trasformare in autentica paura.  A fare la differenza, tuttavia, è quasi sempre la cultura, cioè l’essere correttamente informati e saper quindi interpretare e dominare il cambiamento, specie se rapidissimo, quale quello a cui stiamo assistendo.

Non solo le città, ma il mondo intero, infatti, sta affrontando un cambiamento epocale, con un’accelerazione del fenomeno stupefacente. Gran parte dei capisaldi a cui eravamo abituati si stanno letteralmente sgretolando, sostituiti da una realtà molto più liquida (come aveva intuito con largo anticipo Zygmunt Bauman), quindi difficile da maneggiare, sfuggente e quindi per certi versi inquietante ma che dobbiamo imparare a dominare e che, se vista in positivo, offre enormi opportunità e, forse, una via d’uscita a questo Pianeta in crisi e a chi lo abita.

Da questo punto di vista le città, tutti i dati ce lo confermano, saranno ancora, e probabilmente di più, i motori di questo cambiamento, applicando su loro stesse in via sperimentale tecnologie e soluzioni innovative, che poi, come è quasi sempre successo, andranno a costituire la nuova normalità per tutti. Che esse si muovano e come si muoveranno costituisce la partita più rilevante dell’umanità dei prossimi decenni, dal momento che il fenomeno di inurbamento a livello mondiale è nuovamente in forte crescita e le città sono responsabili del 75% dei consumi energetici a livello mondiale e dell’80% delle emissioni di anidride carbonica, con una crescita di almeno 22.400 Km2 nel periodo che va dal 1970 al 2000.

La città smart, dovrà quindi essere davvero intelligente e le nuove tecnologie, a basso impatto ambientale, costituiscono quella risorsa che prima non avevamo e che oggi abbiamo (e questa è la buona notizia) e che dobbiamo soltanto imparare ad utilizzare al meglio, anche grazie all’Intelligenza Artificiale.

 

 

Luca Baldin

Project Manager di Pentastudio e della piattaforma di informazione e marketing Smart Building Italia. È event manager della Fiera Smart Building Expo di Milano e Smart Building Levante di Bari. Dirige la rivista Smart Building Italia.