Così il videogame entra in farmacia

26 Gennaio 2021 Smart Building Italia


Terapie digitali, app e IoT sanitario: in un futuro già iniziato, l’Italia registra il flop della soluzione anti-covid “Immuni” e il boom dei saturimetri. Ma ora ci si affida al Recovery Plan. “Primo obiettivo è il fascicolo 2.0, con cui curare a distanza” spiega il professor Pillon della European Public Health Alliance.

“Allora, per il suo disturbo, lei si procurerà in farmacia questo videogame che ora le prescrivo… Una visione alla mattina appena sveglio, e una la sera, prima di dormire. Io intanto dal mio ambulatorio seguirò i suoi progressi”.

In attesa delle terapie digitali di un futuro meno lontano di quanto si possa immaginare, come vedremo più avanti, in tema di sanità il presente è già un rosario di app. Già, perché ictus da prevenire o glicemia da regolare, la soluzione è sempre in una app, magari “indossata” tramite bracciale.

“Tutto bene, ma a condizione di affidare il controllo medico non alla app, ma a un medico in carne e ossa. Il che sembra un’ovvietà, ma rischia di non esserlo per nulla in una realtà così esposta a fake news e infodemia” precisa il professor Sergio Pillon, angiologo, nonché membro di EPHA, l’European Public Health Alliance, associazione internazionale composta da associazioni operative nella sanità pubblica. “Sempre in questo contesto – continua Pillon – le app vanno prescritte, e non messe in commercio come un qualsiasi bene di consumo”.

In attesa di capire quale impulso alla telemedicina sottintendono gli oltre 19 miliardi di Recovery Plan destinati dal governo italiano alla sanità, di app e telemedicina si continua a sentir parlare durante la pandemia in corso, e stiamo pur certi che si continuerà a farlo una volta cestinato il covid. Perfino in un Paese tecnologicamente problematico come l’Italia, dove, già prima del coronavirus, la circolare numero 48mila160, pubblicata il primo marzo 2019 dal ministero dello sviluppo economico, stabiliva le modalità non di una semplice riduzione di spesa, ma di un ben più roboante “iper-ammortamento” previsto per “le diverse tipologie di robot e sistemi robotizzati impiegati nel settore medicale per scopi interventistici, terapeutici e riabilitativi“. “A titolo di esempio – si legge nella stessa circolare – possono considerarsi i robot chirurgici utilizzati per eseguire interventi mini-invasivi ad alta precisione“.

Altri benefici dovuti alla robotica si prospettano, in ambito sanitario, per gli effetti collaterali della chemioterapia, per la somministrazione di insulina o per il dosaggio degli inalatori contro l’asma. Secondo il sito di ITManager, società canadese che da otto anni produce app su scala globale, questi tre servizi vanno annoverati tra i casi in cui l’Internet of Things, noto anche come IoT, già concorre al benessere potenziale di milioni di pazienti. Nel mucchio metteteci pure le lenti a contatto intelligenti, che aiutano a recuperare la vista dopo un intervento agli occhi, e i test ideati per monitorare l’andamento della depressione.

Se, di fronte a tali prospettive, qualcuno nutre ancora dubbi sul boom di IoT in ambito sanitario, li fuga una fresca e autorevole inchiesta svolta da IEEE, organizzazione internazionale che si occupa di tecnologia avanzata: su 350 professionisti interpellati, il 42% rivela di avere accelerato l’introduzione di soluzioni IoT in seguito alla pandemia. Si accreditano così le stime che, in un report di Markets and Markets, prevedono aumenti costanti e massicci per il mercato globale dell’intelligenza artificiale applicata alla medicina; si parla di un salto di fatturato che balza dai 72,5 miliardi di dollari del 2020 ai 188,2 del 2025, secondo un aumento su base annua pari al 21%.

Una prova generale in pieno corso di quanto già stia tirando il mercato sanitario viene dall’uso dilagante dei saturimetri, rilevatori di quel grado di ossigenazione del sangue riconosciuto tra i parametri di individuazione del covid: Amazon ne mostra pagine intere, con prezzi che vanno da meno di 5 a oltre 100 euro. Chi pensa di investire nel settore trova di che riflettere nei numeri della veneziana Iacer, azienda produttrice di dispositivi medicali, capace di raddoppiare in un anno il fatturato, che passa da sei a dodici milioni di euro solo grazie alla vendita di saturimetri, fra l’altro acquistati anche dalla regionale Azienda Zero.

Balzi del genere concorrono a rendere ancora più magica la parolina “app” che, pronunciata in una conferenza stampa, sembra un monosillabo inglese vincente come il “wow” delegato a esprimere indiscutibile meraviglia. Solo che, come un anno di covid ci ha ampiamente dimostrato, basta aggiungere ad app un’altra parola, stavolta di tre sillabe, “immuni”, e la sensazione di onnipotenza tecnologica si affloscia peggio di una fake news messa a nudo.

Due mesi fa è stato lo stesso supercommissario governativo Domenico Arcuri ad ammettere il fallimento del dispositivo messo a disposizione degli italiani per un efficente tracciamento dei contagi di coronavirus. I numeri di Immuni certificati dal governo il 27 novembre scorso sono in tal senso esaurienti: 5mila416 positivi individuati su oltre 77mila notifiche inviate, nel contesto di quasi dieci milioni di download effettuati. “Colpa” dei cittadini che non collaborano attivamente? O dei modelli di cellulare non sempre dotati della tecnologia necessaria per attivare Immuni? O del sistema di operatori delegato a ricevere ed effettuare i contatti generati dai fatidici “tracciamenti”? Il fatto che, andando in cerca delle ragioni del flop, ci si incammini in tutte e tre queste “piste”, mette a fuoco come una qualsiasi soluzione hi-tech resti lettera morta in assenza di due reti: quella informatica da una parte, e quella delle relazioni umane dall’altra.

È una “lezione” che scopriamo permeare tutte la complesse e fascinose modalità della telemedicina alimentata da IoT. “Più che di una realtà acquisita in senso stretto, è meglio parlare di straordinarie possibilità messe nelle nostre mani” conferma il professor Sergio Pillon che, prima di diventare membro della European Public Health Alliance, è stato direttore medico del glorioso Cirm, il pionieristico centro di telemedicina istituito in Italia con la nascita della radio.

Premesso che il contrasto tra le potenzialità della telemedicina e le sue concrete attuazioni a livello di massa possono derivare da varie cause, “in Italia – precisa Pillon – il problema è quello dei dati, che equivalgono alla terra fertile in agricoltura. Senza la quale non crescerà nessuna pianta”. “In particolare – continua il medico – senza dati, il fascicolo sanitario elettronico, il famoso FSE dove leggere la storia clinica di ogni paziente, resta tristemente vuoto, più o meno inservibile. Questo è quanto succede in una sanità pubblica italiana che ha bisogno di un salto di qualità informatico potente e capillare se vogliamo davvero tararla sugli standard tecnologici del XXI secolo”.

A proposito di dati, Pillon ha la parabola giusta da raccontare. “Riguarda il noto esame emocromocitometrico, grazie a cui individuare le neoplasie al colon retto – spiega. – Bene, i servizi sanitari di Israele e Gran Bretagna sono dotati della tecnologia con cui seguire l’evolversi dei dati relativi a ogni singolo paziente. In questo modo sono in grado di predire i rischi tumorali con una precisione doppia a quella a cui si giunge negli altri Paesi, Italia compresa, dove si ricorre alla ricerca di sangue occulto nelle feci”.

“Ciò spiega la differenza fatta da un fascicolo che sia finalmente 2.0 – continua Pillon – ovvero alimentato da dati non qualsiasi, ma resi computabili, e quindi leggibili, da algoritmi di intelligenza artificiale. Dopodiché ci vogliono medici abilitati a leggere questi stessi dati, attivando di conseguenza servizi ben precisi“. “Solo in presenza di un fascicolo del genere – tira le somme il professor Pillon – la televisita può diventare tale, lasciando subito tracce sensibili, senza ridursi a una telefonata con supporto video, come è oggi in gran parte dei casi”.

È solo l’avvio di un cammino lungo e non così facilmente “immaginabile” a bocce ferme, ma foriero piuttosto di sorprendenti rivoluzioni, relazionali prima ancora che tecnologiche, secondo un trend ricorrente quando si entra nella sfera dell’IoT e delle sue innumerevoli applicazioni. A darcene un’idea è l’avvento delle terapie digitali, comportamenti guidati a distanza, dove il medico può prescrivere anche l’uso di un videogame, come quello utilizzato in Germania per sostenere i pazienti, soprattutto bambini, affetti dal disturbo psicologico noto come ADHD, il cui acronimo inglese rimanda a deficit dell’attenzione.

Come una normale medicina, questo videogame potrebbe presto essere disponibile anche nelle farmacie italiane, previa presentazione di regolare ricetta. Dopodiché, per la sua “somministrazione”, che sarà seguita dal medico curante, farà puntualmente testo il “bugiardino”, il foglietto dove la posologia è resa nota tramite questa frase: “dose consigliata 25 minuti al giorno 5 giorni alla settimana per 4 settimane”.

Il futuro, nel bene e nel male, sovente inizia quando meno te lo aspetti.