Cosa ci insegna l’epidemia di Coronavirus

13 Marzo 2020 Luca Baldin


Chiusi in casa o nei nostri uffici, in queste strane giornate, abbiamo tempo per riflettere, ovvero abbiamo a disposizione in abbondanza la materia prima che solitamente scarseggia nel ritmo forsennato dei giorni normali: il tempo.

L’epidemia finirà, questa è una certezza che ci forniscono la scienza e l’esperienza, le variabili sono il quando e con quali ricadute, sicuramente pesanti, in termini di vite perdute e di danni economici.

Ci ritroveremo quindi al temine di questa storia a leccarci le ferite e a riprendere, come ha fatto sempre l’umanità dopo eventi più o meno catastrofici; ma la domanda che vale la pena di porci è: ci sta insegnando qualche cosa questa emergenza all’alba del secondo decennio del XXI secolo? E nello specifico di ciò di cui ci occupiamo in queste pagine, cambierà qualche cosa?

La prima cosa certa è che in questi giorni stiamo assistendo ad un enorme esperimento sociale su scala nazionale di smart working e di utilizzo delle tecnologie utili a dare continuità ai rapporti di lavoro a distanza, nella necessità di ridurre drasticamente gli spostamenti fisici. Molti di noi, quindi, stanno scoprendo che in fondo “si può fare” e che molti chilometri fatti nel passato erano sostanzialmente inutili o, quanto meno, di gran lunga riducibili. Ma anche che si può lavorare per obiettivi e che lo scopo del lavoro non è quello di timbrare il cartellino in entrata e in uscita. Non stiamo dicendo che la presenza fisica sia ovviabile, non lo è, e una stretta di mano o il guardarsi negli occhi, virus permettendo, ha ancora un suo altissimo valore. Tuttavia improvvisamente Skype, Webex, Zoom, Anydesk sono diventate piattaforme note a tutti e molti le hanno utilizzate, magari per la prima volta e probabilmente in molti casi scoprendo con fastidio che la connessione “laggava” poiché di qualità insufficiente a reggere una videoconferenza; oppure che era meglio mortificarsi e chiudere la videocamera, per lo stesso identico motivo.

Abbiamo appreso anche che, malgrado gli sforzi eroici della nostra scuola di dare continuità didattica a seguito della chiusura forzata, c’è un gap immenso da colmare in termini di dotazione tecnologica dei nostri plessi scolastici e di cultura digitale dei nostri insegnanti. Abbiamo risposto all’emergenza con la proverbiale capacità italiana di tirarsi su le maniche, ma  con tutte le inefficienze del caso e, non da ultimo, dando vita in molti casi a odiose discriminazioni tra aree geografiche o fasce sociali.

Parallelamente i genitori, a causa dei figli a casa e della necessità di consentire loro di seguire le lezioni a distanza, hanno capito cosa significhi oggi società della comunicazione, e quali siano i requisiti indispensabili per farne parte, e non da ultimo che differenza intercorra tra una buona connessione internet e una pessima. Nei casi più gravi (non pochi), hanno sperimentato cosa significhi essere in digital divide.

Al tempo stesso, in modo molto più drammatico, abbiamo capito anche che l’emergenza epidemica del Covid-19 è più legata all’impossibilità del sistema sanitario nazionale di dare una risposta a tutti i casi gravi (una modesta percentuale degli infettati) che alla severità in sé dell’infezione; ovvero che la vera emergenza era dettata dalla mancanza di posti letto in rianimazione e all’ingolfamento dei pronto soccorso.

Così abbiamo anche imparato che, se vogliamo dare protezione alle fasce sociali più deboli, sarebbe molto utile disporre di un sistema più efficiente di assistenza a distanza, quindi, che oltre allo smart working, dobbiamo mettere mano urgentemente anche ad un efficiente sistema di smart health che consenta di contenere le ospedalizzazioni e di limitare l’assistenza in presenza ai soli casi più seri. Ma anche questo ha a che fare con l’infrastruttura digitale del Paese, ancora molto carente.

Saremo quindi uguali a prima, dopo la fine dell’emergenza? Ci dimenticheremo tutto molto velocemente ed andremo sereni incontro al futuro come se nulla fosse accaduto?

Personalmente non credo. Anzi, da inguaribile ottimista, credo che questa emergenza possa costituire quella scossa al Paese necessaria per accelerare sul fronte dell’innovazione, per farlo diventare più efficiente, più moderno, meno sprecone, più attento a servizi essenziali come la scuola e la sanità; più consapevole degli sprechi dettati semplicemente dalla pigrizia di tutti noi a superare antiche abitudini.

Chi, con noi, lavora nel campo dell’innovazione tecnologica, da domani ha una missione in più e degli obiettivi resi più chiari da queste giornate buie. Forse anche coloro che ci governano e che in questi giorni nessuno di noi può invidiare, avranno la possibilità di comprendere quali sono le priorità di questa società in rapida trasformazione e quali debbano essere gli obiettivi di una Nazione moderna.

Mò a da passà ‘a nuttata” scriveva il grande Eduardo De Filippo in Napoli Milionaria; ma domani, forse, ci sveglieremo con le idee un po’ più chiare.

Luca Baldin

Project Manager di Pentastudio e della piattaforma di informazione e marketing Smart Building Italia. È event manager della Fiera Smart Building Expo di Milano e Smart Building Levante di Bari. Dirige la rivista Smart Building Italia.